Reati, aggressività e patologie psichiatriche: c’è una correlazione?

Continuiamo a parlare di violenza e patologie psichiatriche con il dottor Lorenzo Maria Contini, Psichiatra, psicoterapeuta

Siamo in un mondo in cui la violazione dei diritti umani è all’ordine del giorno perché c’è poco rispetto per la “persona”, l’essere umano, a prescindere dalla sessualità, dalla razza, religione e orientamento sessuale. L’educazione e la sensibilità verso l’Altro devono partire dalla famiglia, dalla scuola e ogni tipo di abuso (sessuale, verbale, psicologico, fisico) dovrebbe essere punito severamente. Non si può vivere nella paura ma neppure creare una corazza per difendersi da questa società che si è marchiata di stereotipi e concezioni illusorie basate sulla convinzione che la forza venga dalla violenza sotto forma di parole o di umiliazioni o ancora di silenzi. Il ricatto, l’abuso sessuale, ogni tipo di carnefice si nasconde dietro la motivazione della “follia” o il ” malessere psicologico “per giustificare il suo comportamento. Ricordiamo che coloro che attuano violenza sono persone ” pensanti” e non importa quale abuso abbiano subito in passato, quale sia la loro storia. Tutti abbiamo un passato difficile e questo non ci dà il diritto di sfogare le angosce, frustrazioni o di dimostrare la nostra ” forza” abusando degli altri. Al contrario, questo dimostra solo debolezza, paura e indignazione verso se stessi e verso la vita. Ricordo una bellissima frase del romanzo di Tolstoj ” Anna Karenina ” che l’autore usò in circostanze diverse, per spiegare la volontà del suicidio ma, a mio avviso, è una verità che dovremmo ripeterci ogni giorno:” la ragione è data all’uomo perché si liberi da ciò che lo tormenta” e, mi permetto di aggiungere, solo attraverso il pensiero, la ragione, possiamo crescere, liberarci dai nostri ” tormenti interiori” e imparare il vero senso del rispetto. Verso se stessi e verso gli altri.

Torniamo a parlarne con il dott. Lorenzo Maria Contini, Psichiatra, Dirigente Medico, Docente di Psicopatologia e Dottorando in Neuroscienze.

Dottore da cosa è alimentata la credenza che l’omicida sia una persona affetta da patologie psichiatriche?

«Sembra che si cerchi continuamente una spiegazione razionale ad ogni tipo di violenza – continua il dottor Contini – che possa distaccarci dall’evento e permetterci di allontanare l’idea della responsabilità, di poter credere che l’aggressività ad esempio sia una caratteristica esclusiva dei pazienti psichiatrici. Il furto, l’abuso di sostanze, l’omicidio, il femminicidio, l’infanticidio, le varie forme di crimine violento, sono tutte cose che in realtà sono relativamente frequenti nella nostra società, da cui siamo terribilmente spaventati: è più “facile”, per chi guarda dall’esterno un reato, affibbiare all’autore un’etichetta di diversità, dire che la responsabilità è del “altro”. Poi quale sia “l’altro” ci importa poco. Può essere il diverso, lo straniero, il paziente psichiatrico, poco importa. E si finisce che, quando il reato è particolarmente violento, diventa incomprensibile e si cerca una spiegazione razionale suggerendo, forse involontariamente, l’idea che “reato uguale malattia”».

Quindi, secondo lei, chi commette un omicidio non è una persona con un disturbo psichiatrico?

«Ma vede, dipende da quello che intende quando parla di “disturbo psichiatrico”. La psichiatria è una branca medica, si occupa di malattie. Non di controllo e ordine sociale, per quello ci sono le forze dell’ordine. Parlavo con il padre di un ragazzo qualche tempo fa, che sosteneva che evidentemente il figlio, visto che aveva dei comportamenti aggressivi nei suoi confronti e non voleva mettere la classica “testa a posto” alla sua età, doveva per forza avere un problema psichiatrico. Per lui la prova inconfutabile della malattia erano certi comportamenti. Io cercavo di fargli capire che i reati che ha commesso e la sua aggressività in famiglia non hanno nulla a che fare con la sua patologia, ammesso anche che ci sia. Tutte le cose, ovviamente, sono collegate tra loro ma un conto è dire “commetto un reato perché ho una malattia mentale”, un conto è dire “ho una patologia psichiatrica e faccio dei reati”, che è uguale a dire “ho una patologia cardiologica e faccio un reato”: è possibile, certo, che ci sia un nesso, ma va provato. Le faccio un altro esempio: esisterà sicuramente un mafioso affetto da una patologia psichiatrica ma quel soggetto non è un mafioso perché ha questa malattia. È un esempio molto banale ma ci fa capire la differenza, e noi questa differenza dobbiamo capirla e farla capire, perché poi se no rischiamo di fare confusione, che va solo a vantaggio di chi vuole approfittare di un sistema che è progettato al solo scopo di proteggere le persone veramente fragili».

E allora perché esiste questa convinzione che gli aggressori, i violenti, abbiano qualcosa che non va?

«Ma forse lo hanno anche, in un senso più generale. Hanno spesso un disinteresse per le regole sociali e morali. Che tra l’altro cambiano, da una società all’altra e da un’epoca all’altra, ma questo aprirebbe un enorme capitolo. Quello che è importante però è non confondere disagio, disadattamento e disturbo. Queste sono in genere persone che non vogliono o non riescono ad accettare un sistema di regole, ma questo è un problema di educazione, non di medicina. Però illuderci che tutti i violenti, ad esempio, abbiano una patologia, è in realtà una comoda bugia che serve a proteggerci. C’è un aspetto molto tipico della nostra società: la ricerca di una spiegazione razionale ad ogni costo. Ma non spiegazione qualunque: siamo portati ad accettare spiegazioni che ci permettono di avere un distacco dall’evento, così possiamo dirci “questa è roba che fanno i matti, ma LORO sono altro da NOI, quindi, NOI non potremmo mai essere questo”. Abbiamo bisogno di spiegazioni che in qualche modo ci rassicurino».

Questa è una forma di difesa?

«In un certo senso sì. Ma alimenta anche lo stigma nei confronti del paziente psichiatrico, che diviene involontario colpevole di portare il marchio della malattia. L’idea che il criminale sia forzatamente un paziente psichiatrico comporta anche in molte persone lo stigma intrinsecamente opposto, cioè che il paziente psichiatrico sia intrinsecamente pericoloso. Pensi ai recenti fatti di cronaca, ragazzi che uccidono le ex, ma anche quella donna che ha fatto morire di stenti la figlia piccola. Molte persone sono rimaste stupite di sentenze di condanna, che non riconoscevano l’incapacità di intendere e volere, e mi hanno chiesto “come fa una persona che non è un paziente psichiatrico a fare una cosa del genere?” come se invece per un paziente dovesse essere normale. Ma non lo è e non c’entra, i fattori sono tanti ma tutti socio-ambientali: la rabbia, la solitudine, lo spaesamento, l’indifferenza, l’antisocialità».

Si riferisce al disturbo antisociale?

«Ma vede il disturbo antisociale è a mio avviso uno dei disturbi sulla cui esistenza, per come sono organizzati i sistemi nosografici, è molto discutibile. Tutti i disturbi psichiatrici per come sono classificati sono delle sorte di convenzioni: questo vale per molte cose in medicina, perché per le grandezze biologiche come l’altezza, la pressione, l’umore, è difficile se non impossibile identificare un limite tra quello che è sano e quello che è patologico. Il limite è sempre, in qualche modo, statistico. Ed in più le dimensioni psichiche, come l’umore o l’ansia, sono difficili da misurare in modo standardizzato. L’antisocialità è una dimensione della nostra psiche: non è una cosa che c’è o non c’è, come l’ansia e come molte altre cose semplicemente c’è chi ne ha tanta e chi ne ha poca. Tra chi ne ha tanta, alcuni hanno un disturbo psichiatrico per cui ne hanno tanta, ma non basta solo il criterio “tanta ansia immotivata” a fare una diagnosi. Come non basta la tristezza a fare diagnosi di disturbo depressivo. L’antisocialità però diventa patologia nell’essere un disturbo di personalità antisociale: ma l’elemento centrale di un disturbo di personalità sta proprio nel determinare una serie di alterazioni del funzionamento, che sono per forza di cose influenzate dal contesto sociale».

E quindi questo come ci aiuta a capire il disturbo antisociale?

«Il tratto antisociale è caratterizzato, banalizzando molto, dalla disaffezione rispetto alle norme sociali. Ora quando questa caratteristica è molto accentuata creerà inevitabilmente un problema nell’interazione con gli altri, ma questo è anche ciò che configura di per sé il crimine, questo mi sembra ovvio. Comunemente un tratto antisociale elevato si può riscontrare tra chi specula in borsa, in chi fa speculazioni edilizie, in tanti contesti di disinteresse della “patìa” dell’altro (da cui la parola em-patìa, che è carente in queste persone): queste persone non commettono per forza un reato, ma molti di coloro che commettono reati, soprattutto efferati, hanno questa caratteristica. Che a mio parere è una caratteristica personologica. Definire così uno specifico disturbo di personalità a mio avviso, e non solo mio, finisce per dare una descrizione tautologica ed autoreferenziale. E sostanzialmente a psichiatrizzare qualsiasi aspetto della vita».

Ma è importante sapere se una persona ha un tratto simile no?

«Può essere importante, soprattutto in chi ha commesso reati, fare una valutazione su alcune caratteristiche della sua personalità. Sapere se una persona che ha commesso un reato ha certe inclinazioni di personalità mi è utile, ma non solo per capire se fosse in grado di intendere e volere: mi può aiutare a stimare la sua pericolosità futura e mettere in campo degli interventi che modifichino questa traiettoria. Perché poi tutto deve essere finalizzato a questo, tutto il sistema penale punta alla rieducazione e al reinserimento nella società. In questa ottica capisce bene che quello antisociale è un tratto importante da determinare».

Vengono fatti dei test per capire se una persona è affetta da un disturbo psichiatrico

«La metodologia delle perizie, se è questo che mi sta chiedendo, è molto complessa, e richiede di adattarsi come strumenti e tecniche sia alle domande che ci pone il giudice che alle caratteristiche del caso concreto. Vengono fatti dei colloqui, viene approfondita e riletta la storia di vita e clinica di quella persona. Ed a volte, se sono utili, vengono fatti dei test, tanti tipi di test: ma ricordi che la possibilità di oggettivare dimensioni e patologie in psichiatria non è cosa banale. Le etichette “disturbo di personalità”, “disturbo borderline”, “depressione” ecc. sono probabilmente delle entità diverse da quelle che noi convenzionalmente le descriviamo, e su cui abbiamo costruito i nostri test; quindi, i risultati vanno sempre letti con professionalità e spirito critico».

È possibile imbrogliare a questi test?

«Per alcuni è più facile, per altri meno. È molto difficile per quelli più complessi come l’MMPI, che è studiato apposta per avere una coerenza interna, sono moltissime domande (oltre 500), vengono misurati vari parametri in vari modi, ed il modo in cui poi i risultati vengono interpretati tiene conto di molte possibili incongruenze, per cui imbrogliare sarebbe sicuramente molto difficile e molto dispendioso. Poi nulla, chiaramente, è impossibile. Ma proprio per questo vengono usati vari test, che dovrebbero dare risultati coerenti e complementari, e tutto questo deve essere poi interpretato e filtrato da un occhio esperto».

Come dimostrato anche nel caso dell’omicidio di Giulia Tramontano “Alessandro Impagnatiello era pienamente capace di intendere e di volere quando, il 27 maggio 2023 uccise con 37 coltellate la fidanzata incinta di sette mesi” . È stato condannato all’ergastolo ma ci sono casi in cui assassini hanno avuto una pena breve o sono usciti prima per buona condotta. E hanno ucciso nuovamente.
Per questo è importante valutare attentamente prima di giudicare chi ha commesso un omicidio: nella maggior parte dei casi non sono altro che assassini che cercano di nascondersi dietro la parola “follia”.

Autore: Ilaria Cicconi