Il suicidio e l’anima

Lo sguardo dello psicoanalista sul tema del suicidio. Recensione del libro di Hillman “Il suicidio e l’anima”

Il suicidio nel Quattrocento in Inghilterra era considerato un reato contro Dio o colui che allora era il sovrano. Le pene erano molto severe, al suicida veniva negata la sepoltura in terra consacrata e i suoi beni venivano confiscati dall’elemosiniere della Corona. Le giurie cercavano, invano, pietà per le vittime a causa di condanne così dure per i familiari del defunto. Nel diciottesimo secolo i governi erano contrari a ridurre la pena così la soluzione migliore fu quella di trasformare il suicida in un pazzo. Infermizzare il suicidio. Dopo il 1760 la confisca dei beni divenne una cosa rara.

Il primo testo che mette in collegamento la legge con la follia fu pubblicato nel 1838 da Isaac Ray, medico di soli 31 anni. Ancora oggi il tema è molto discusso sia a causa della religione cristiana sia perché le persone, spesso, giudicano chi commette un atto così estremo senza capire le ragioni, le motivazioni o le patologie psichiatriche che portano un essere umano a togliersi la vita. Eppure, non sempre è così: “occorre una notevole indipendenza di giudizio per riuscire a considerare il suicidio senza vederlo attraverso gli occhi della psichiatria”.

Il suicidio è stato al centro delle discussioni di vari filosofi, alcuni si sono sottratti alla vita per un avere il controllo su di essa, a volte è stato considerato un rifiuto verso un destino o un Dio che possa scegliere quando mettere fine alla vita. Sono molte le personalità illustri nella storia che hanno scelto questa morte: chi per motivi morali chi per gravi patologie psichiatriche (ad esempio la scrittrice Virginia Woolf che è stata una delle più importanti figure nella storia del femminismo, autrice del famoso saggio “Una stanza tutta per sé” e altri romanzi come “Gita al faro”, “La signora Dalloway”).  Possono essere molteplici i motivi per cui una persona sceglie il suicidio.

Il libro di James Hillman

Un famoso psicoanalista e filosofo, James Hillman, deceduto nel 2011, nel suo libro Il suicidio e l’anima ci spiega quale dovrebbe essere il comportamento dello psicoanalista di fronte ad un paziente che sceglie di togliersi la vita.
Il testo inizia con una breve prefazione sull’argomento: come il suicidio “era considerato un peccato e uno scandalo” e quanto possa essere difficile parlarne perché “ addentrarsi in temi come la morte e il suicidio significa infrangere dei tabù perciò questo libretto appare polemico mette in discussione il tema del suicidio va ad indagare l’esperienza della morte, accosta la questione del suicidio non dal punto di vista della vita della società e della salute mentale ma in relazione alla morte e all’anima. Quindi – continua lo psicoanalista- considera il suicidio non soltanto come una via di uscita dalla vita ma anche un ingresso nella morte”.

La differenza tra “medico” e “psicoanalista dell’anima”

In un certo senso Hillman capovolge la prospettiva del suicidio, soprattutto quella medica; infatti, parla anche della differenza tra il “medico psicoanalista” che ha studiato medicina e lo “psicoanalista”. Il primo, essendo anche medico (quindi colui che cura il corpo) cerca di salvare la persona anche attraverso “mezzi veloci” come gli psicofarmaci o una terapia mirata per vedere le cose in modo diverso. Ovviamente non è così per tutti perché molto dipende dal medico in questione e dal suo percorso ma lo specialista dovrebbe affrontare con il paziente l’esperienza della morte.

Il compito dello psicoanalista, secondo Hillman, è capire il motivo che sta alla base del suicidio non cercare di offuscarlo o “medicarlo”. Si può intraprendere un percorso di morte dell’anima, molto doloroso, in cui si “muore dentro” e non si parla di depressione. La depressione è la perdita di ogni interesse, stanchezza cronica e stato catatonico, mentre affrontare la morte guardarla negli occhi e avvicinarsi ad essa è difficile: scavare nell’inconscio soprattutto attraverso i sogni, superare meccanismi inconsci di difesa come, ad esempio, la rimozione (il meccanismo di rimuovere ciò che ci fa male) o anche non farlo perché il rimuovere quando il paziente non è pronto potrebbe peggiorare le cose.

I meccanismi di difesa

Alcune persone che hanno subito un abuso, una violenza, un trauma, un lutto mai superato rimuovono in parte o del tutto ciò che hanno subito. Questo non significa che lo psicoanalista non debba aiutare il paziente a ricordare ma è importante che lo faccia nel momento giusto e quando il soggetto è pronto. Si chiamano “meccanismi di difesa” proprio perché “vengono utilizzati ogni qualvolta diviene necessario impedire l’aperta espressione nel pensiero o nel comportamento di un impulso inconscio.
Ciò accade quando l’interno conflitto psicologico o la pressione degli eventi esterni minaccia di sopraffare le capacità di integrazione dell’Io, oppure in quei casi in cui le funzioni dell’Io risultano indebolite da affaticamento, malattia, lesioni cerebrali o dalla presenza di tossine quali quelle provocate dall’alcol” (I meccanismi di difesa, R White, R.M. Gilliland). Non dimentichiamo però che l’uso dei meccanismi di difesa avviene anche nelle persone “normali” ma in modo adattivo o di breve durata.

La prevenzione del suicidio

Successivamente Hillman parla della prevenzione del suicidio dal punto di vista della sociologia, del diritto, della teologia e della medicina. Nei capitoli successivi scrive, il suicidio è una delle possibilità umane. La morte può essere una scelta, il significato di tale scelta è diverso secondo le circostanze e gli individui. Il problema analitico inizia qui, dove terminano i resoconti e le classificazioni. “All’analista interessa il significato individuale di un suicidio che non è dato dalle classificazioni. L’analista parte dalla premessa che ciascuna morte ha un senso ed è in qualche misura comprensibile, al di là di come la si classifichi.”

Poi, sottolinea come ogni suicidio ha un senso e il compito dell’analista è quello di considerare il “dentro”, cioè il problema dall’interno. Solo così sarà il grado di capirne il significato. Il suicidio va analizzato come qualsiasi altra forma di comportamento. Ogni pulsione di morte va vista dall’interno e in modo individuale e per capire perché un soggetto ha scelto di togliersi la vita deve “morire dentro”. Quindi, intraprendere un cammino doloroso ma che lo aiuterà a comprendere.
Si può morire molte volte prima di morire fisicamente. “L’anima è un concetto volutamente ambiguo, che resiste a ogni tentativo di definizione. Se l’analista vuole comprendere cosa avviene nell’anima non deve mai procedere con un atteggiamento improntato alla prevenzione…questo perché – spiega –è necessario che il soggetto riconosca gli stati d’anima che sta attraversando in modo che essi possano trovare una realizzazione nella personalità ed essere vissuti consciamente”. Quindi l’analista non è lì per condannare modificare o prevenire ma per dare un significato. A quel desiderio di morte, alla morte, a ciò che si sente dentro per poter vivere consciamente l’esperienza della morte e decidere se è veramente quello che il paziente vuole.

La morte e l’approccio filosofico

Nel libro Hillman afferma quanto sia importante per l’essere umano andare incontro alla morte consapevolmente, come propone la filosofia. Anche se per alcuni il suicidio può essere un gesto filosofico, per altri disperato. Ma “l’impulso di morte non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita; potrebbe esprimere il bisogno imperioso di incontrare la realtà assoluta, la richiesta impellente di una vita più piena attraverso l’esperienza della morte”.

Lo psicoanalista junghiano affermava che senza l’angoscia della morte e le prevenzioni di posizioni precostituite il suicidio diventa naturale.
In che senso naturale?
Proprio perché è una scelta in cui si cela, ovviamente, il suo contrario.  “Finché non abbiamo detto di no alla vita, non le abbiamo detto davvero di sì”. Alcune persone scelgono la vita perché hanno paura della morte e altre il contrario.

La psicoanalisi ha sempre a che fare con la morte e con la vita. In un percorso psicoanalitico ci si imbatte nella morte attraverso i sogni, la morte di figure interiori, la perdita o il lutto di persone care, la morte o la perdita di un amore inteso nel suo senso più ampio (che può essere l’amore per una persona, un’attività, un animale).  Secondo Jung la morte ha molte sembianze e nella psiche non si presenta in quanto tale. L’anima attraversa tante esperienze di morte non fisiche. La morte, sosteneva Hillman, a volte compare allo scopo di aprire la strada alla trasformazione.

La morte come cambiamento e il suicidio come mezzo di porre fine all’angoscia

Il cambiamento è come una morte in cui si rinasce, come un fiore che appassisce e germoglia o un animale che cambia la sua pelliccia. Se non si passa attraverso questo dolore non si vive pienamente. Quindi nella psicoanalisi “questa morte è una fase essenziale” e forse si deve morire molte volte per vivere veramente. Invece “il suicidio è il tentativo di passare violentemente da una sfera all’altra, attraverso la morte. L’angoscia che precede il suicidio rappresenta la lotta dell’anima con il paradosso di vari opposti”.

Dato che l’esperienza della morte enfatizza nel corpo la trasformazione il suicidio è un attacco alla vita del corpo. Ma la vera morte, quella che precede la morte fisica, è quella dell’anima. Ed è più dolorosa. Se ci si fermasse a comprendere il “significato” il “dentro” di questa scelta forse la persona potrebbe cambiare idea e, superata l’angoscia della morte, rinascere. Oppure scegliere consciamente e consapevolmente il suicidio. Non sta all’analista né scegliere né giudicare ma solo accompagnare il paziente nel significato delle sue scelte. Ogni cambiamento o resistenza va capito e analizzato e questo può farlo solo il paziente, con uno psicoanalista non giudicante, superando un grosso scoglio: quello che lo ha portato sul lettino e quello che lo farà rinascere nuovamente.

Autore: Ilaria Cicconi