Autolesionismo: dolore inflitto sul corpo per anestetizzare quello dell’anima
Nel DSM-V, il manuale diagnostico dei disturbi mentali, l’autolesionismo è stato inserito come una categoria distinta rispetto alle versioni precedenti.
Quando si parla di autolesionismo è necessario suddividere la patologia in tre categorie, soprattutto per fare una diagnosi corretta.
Per autolesionismo si intende “un comportamento ripetitivo, solitamente non letale per severità né intento, diretto volontariamente a ledere parti del proprio corpo, come avviene in attività quali tagliarsi o bruciarsi” Armando Favazza (1989, p. 137).
Criteri per diagnosticare l’autolesionismo
Per diagnosticare l’autolesionismo è necessario che il soggetto presenti determinati sintomi
1) Nell’ultimo anno, in cinque o più giorni, si è inflitto intenzionalmente danni sulla superficie corporea in grado di indurre sanguinamento, dolore o lividi. Per esempio, tagliandosi, bruciandosi, ferendosi con coltelli o lame, aghi, colpendosi
La condotta autolesiva, per essere tale, deve essere preceduta da una o più delle seguenti aspettative:
1)ottenere sollievo da una sensazione/stato cognitivo negativo;
2)risolvere una situazione relazionale;
3)indurre una sensazione positiva
Inoltre, il comportamento autolesivo deve essere associato ad almeno uno dei seguenti sintomi:
A) difficoltà interpersonali o sensazioni/pensieri/sentimenti negativi precedenti al gesto autolesivo;
B) preoccupazione incontrollabile per il gesto;
C)frequenti pensieri autolesivi.
Infine, deve provocare disagio significativo.
Le varie categorie di autolesionismo
Fu proprio Favazza insieme a Rosenthal che nel 93 identificarono diversi tipi di autolesionismo in base al danno dei tessuti che le lesioni riportavano sul corpo.
1) autolesionismo maggiore: gli atti lesivi sono poco frequenti e isolatiti ma provocano un danneggiamento dei tessuti grave e permanente. Questo tipo di autolesionismo è associato a patologie psichiatriche come la psicosi ma include anche altri disturbi come la castrazione e l’enucleazione oculare
2) autolesionismo stereotipato: le azioni sono costanti, ripetitive (battere la testa, mordersi, graffiarsi, lesionarsi la pelle
3) autolesionismo superficiale/moderato che si divide in: compulsivo come il mangiarsi le unghie fino al sanguinamento, la tricotillomania, scorticarsi la pelle; episodico che consiste nel procurarsi dolore al fine di acquisire controllo di pensieri che il soggetto ritiene insopportabili quindi si taglia, si brucia, si rompe le ossa o si infligge torture. Infine, quello ripetitivo in cui il soggetto è dipendente dal comportamento autolesivo.
I dati
L’autolesionismo è un fenomeno che riguarda prevalentemente gli adolescenti (15-20%). Questo perché nella fase adolescenziale e nella giovinezza avviene il cambiamento e il ragazzo inizia a formarsi dal punto di vista emotivo. È un fenomeno che può permanere anche in età adulta.
Quali fattori possono scatenare l’autolesionismo
Fattori familiari, individuali, ambientali, disagio interiore, l’incapacità di tollerare una frustrazione, la rabbia e l’incapacità di regolare gli impulsi. Sono gesti autolesivi anche l’abuso di alcol, droghe e una vita sessuale promiscua.
Dietro l’autolesionismo, spesso si nascondono gravi patologie psichiatriche
Il comportamento autolesionistico è frequente in soggetti che presentano problemi psichiatrici (disturbi dell’umore e/o disturbi d’ansia, abuso di sostanze, disturbi dell’alimentazione, disturbi dissociativi, disturbo da stress post traumatico, schizofrenia e disturbi di personalità). Spesso è associato al disturbo borderline di personalità ma in tal caso il quadro è più grave, il comportamento è ripetuto e le modalità autolesive sono varie.
Autolesionismo come richiesta di aiuto o punizione
L’autolesionismo può essere una richiesta di aiuto ma anche una punizione.
Il punirsi è un atto autolesivo. E, anche quest’ultimo può essere fisico o no.
Ad esempio, una persona che ha subito violenza fisica, sessuale, psicologica può avere comportamenti autolesionistici proprio perché non riesce a tollerare questo tipo di ricordo e cerca sollievo nell’atto punitivo. Di solito chi subisce violenza può diventare violento con gli altri ma, in alcuni casi, anche con sé stesso. Si autopunisce. Sposta il dolore dalla mente al corpo. Infligge dolore al proprio corpo per “liberare” il dolore dell’anima.
Perché l’autolesionista prova sollievo nel tagliarsi?
È un meccanismo neurofisiologico. Attraverso il dolore viene stimolato il cervello a produrre ormoni che hanno effetti rilassanti analgesici. Di conseguenza, il corpo raggiunge uno stato di rilassamento. Sembra che per il soggetto sia più facile tollerare un dolore fisico piuttosto che psichico.
L’autolesionismo può essere una richiesta di aiuto o un modo per attirare l’attenzione
Soprattutto nei giovani, correlato ad altri disturbi, come quello del comportamento alimentare, può essere un segnale per “parlare” con i propri genitori quando c’è una situazione familiare difficile. Per questo è importante osservare i ragazzi, non allarmarsi ma neanche sottovalutare, assumere un comportamento funzionale non oppressivo.
Autolesionismo e bisogno di controllo o di fuga
Quando una persona non riesce ad avere il controllo sui propri vissuti, sulle emozioni purtroppo, a volte, accade, che ricorra ad atti di autolesionismo. Questo perché pensa che il dolore fisico possa, in qualche modo, allontanare la sofferenza del dolore emotivo. Quindi, il soggetto sposta il dolore dal corpo alla mente. Le sofferenze psichiche possono essere di vario tipo come un dolore insopportabile, la perdita di una persona cara, il non riuscire a superare un problema o un vissuto emotivo. Ma non solo. Anche il vuoto. Il “non sentire nulla” il non provare emozioni nonostante si abbia una vita sociale.
Sono tanti i vissuti che le ferite sul corpo possono nascondere ma spesso è proprio la fuga che porta alla “lesione”. E questa lesione può non essere solo corporea. L’autolesionismo ha anche un altro volto. Il soggetto può farsi del male attuando comportamenti che danneggiano la propria persona in ogni ambito sociale: da quello lavorativo a quello emotivo o sentimentale.
Pensa di poter gestire in questo modo il “dolore interno” ma il sollievo è solo superficiale. Questo perché il problema si ripresenta e il lesionarsi, fisicamente o emotivamente, diventa una dipendenza.
Come uscirne in questi casi?
Affrontando il dolore se questo è legato ad un trauma o a un vissuto emotivo. Guardando in faccia il vuoto, se il soggetto sente le emozioni esterne a sé stesso come se guardasse qualcuno vivere la sua vita e lui fosse il narratore esterno. Attenzione perché questo tipo di disturbo è legato, spesso, a patologie psichiatriche. Nel caso di soggetti psicotici non è possibile osservare il “vuoto” e il “non sentire nulla”. Se invece, la persona non ha un problema invalidante come la psicosi è giusto dare un volto a questo dolore senza perpetuarlo. Ascoltarsi e parlare. Con uno specialista o con una persona competente. Già il sentirsi ascoltato può aiutare perché l’autolesionismo è, molto frequentemente, proprio una richiesta di aiuto. Un urlo di dolore a cui non si è dato un volto. Che non prende forma. Da cui si scappa.
Curare l’autolesionismo
Prima di tutto è importante capire il perché un ragazzo o una persona arriva a compiere determinati gesti. Se il disturbo diventa serio è necessario ricorrere all’aiuto di uno specialista. Sempre senza forzare il ragazzo, altrimenti si otterrebbe l’effetto contrario.
La terapia che risulta più efficace è la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Insieme al terapeuta il soggetto deve capire il perché dei suoi gesti, se dipendono da situazioni antecedenti. Affrontare e rilevare i fattori di rischio che possono provocare un protrarsi nel tempo del problema.
Un altro tipo di approccio utile è la Terapia Dialettico Comportamentale (DBT).