Transfert, controtransfert e formazione terapeutica

Prosegue l’intervista al professor Rosario Di Sauro psicologo, psicoterapeuta

Come abbiamo visto nel procedente articolo le dinamiche transferali rappresentano un punto cardine della terapia e l’importanza della formazione dell’analista è fondamentale per gestire al meglio i vissuti del paziente facendo, così, emergere traumi e meccanismi inconsci che mette in atto nella sua vita.

Il professor Rosario Di Sauro continuerà a rispondere alle nostre domande.
Per leggere la prima parte dell’intervista cliccate qui.

Professore il transfert può portare a galla dei vissuti rimossi, abbattere questo tipo di protezione può causare complicazioni dato che questi meccanismi sono funzionali?

“I meccanismi di difesa possono essere definiti in maniera ampia: maturi o immaturi ma hanno anche altre particolarità. Ovviamente hanno anche una temporaneità diversa.

Se un meccanismo dissociativo o di altro genere può essere funzionale nei primi anni idi vita ma quando una persona ha 18, 20 anno diventa un meccanismo immaturo. Per esempio, se un bambino parla con un orsetto mentale o il cosiddetto “amico immaginario” a cinque sei anni è naturale e spesso esprime anche creatività, mentre se lo fa da 12 anni in poi può essere considerato una patologia, una problematica psichica e, forse, anche psicotica. Sono due cose diverse. Quindi i meccanismi di difesa non si smantellano facilmente, anche perché nella stessa ottica psicoanalitica vengono usati come indicatori per la valutazione clinica e per l’individuazione della diagnosi e la relativa prognosi. Se incontro un paziente la prima volta e mi rendo conto che mette in atto meccanismi difensivi che sono immaturi è normale che la diagnosi diviene particolarmente pesante. Potrebbe trattarsi di un disturbo borderline o di un disturbo psicotico. Ci sono altre ottiche teorico-cliniche che danno meno importanza ai meccanismi difensivi come quella intersoggettiva all’interno della psicoanalisi che presuppone una modalità diversa dall’uso dei meccanismi difensivi che prima ho descritto.

I meccanismi difensivi, tuttavia, non vanno smantellati ma fortificati e interpretati perché il soggetto possa assumere un atteggiamento più maturo.  È sbagliato che il terapeuta proietti le proprie cose, quindi, dovrà imparare a non farlo assumendosi le sue responsabilità e accettando cose che prima erano inammissibili per la sua mente.

La relazione terapeutica è asimmetrica (non paritetica). Il terapeuta, come i genitori, il caregiver, ha una responsabilità che il paziente non ha.
Tornando al transfert, il paziente ha il diritto di esprimere le sue debolezze, l’analista ha l’obbligo di elaborare quelle comunicazioni e non di condividerle entrando in quelle che Gabbard chiama le “chine scivolose del setting”. Il terapeuta deve, a prescindere dall’orientamento professionale, essere in grado di decodificare queste comunicazioni in una logica funzionale e di crescita a favore del paziente.

Infondo qualsiasi tipo di terapia, in modo particolare quella psicodinamica, per usare una frase di Alexander, è “un’esperienza emotiva correttiva”. Come amo dire io è un’esperienza affettiva sostitutiva. La psicoterapia, in realtà, va a sostituire e a cambiare quelle cose disfunzionali del passato”.

Secondo lei, basta la consapevolezza per guarire?

“No, non basta la comprensione. Perché, se fosse così basterebbe un seminario per risolvere il problema. Il paziente deve, come diceva già Freud, ricordare, elaborare e aggiungo anche trasformare perché la terapia deve essere trasformazione. Non basta che io abbia capito determinate cose. Le faccio un esempio concreto. Se nel corso della mia storia personale la relazione con i miei cargivers o genitori è stata deficitaria di scambi affettivi, carezze, abbracci e baci attraverso il mio percorso terapeutico lo comprenderò e lo elaborerò ma non cambierò completamente perché ormai sono figlio di quel tipo di esperienza. Non diventerò particolarmente estroso alla fine della terapia però qualche cambiamento deve esserci. La terapia deve essere trasformativa altrimenti può diventare superficiale. Ecco perché la psicoanalisi è l’unica terapia del profondo e “ricostruisce la struttura di personalità del paziente”.

Come mai ha scelto la psicoterapia psicoanalitica e non la psicoanalisi?

“Ormai c’è una letteratura vasta sulla definizione di Psicoterapia psicoanalitica. Il professor Paolo Migone, insieme a molti altri ad es., si è occupato, anche in virtù dell’essere direttore della rivista Psicoterapia e scienze umane, in tanti articoli di quella rivista di tale problematica.

In sostanza la questione è questa: la matrice teorica è uguale, non c’è differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicanalitica o psicodinamica.

È nella formulazione del contratto che si situa la differenza: per esempio nella psicoanalisi o tecnica standard o classica, si richiede una frequenza maggiore e, con l’uso del lettino, mentre l’approccio al paziente nella psicoterapia psicoanalitica può essere leggermente diverso (chi fosse interessato a questo tema può consultare Otto Kernberg, 2024). Anche se molti analisti continuano ad usare il lettino, per ragioni tecniche o cliniche, il suo uso è sempre più raro. Nella psicoterapia psicodinamica, come vede in questo studio, lei trova due poltrone identiche poste più o meno a 45 gradi. Anche la frequenza degli incontri è minore (può essere di una volta o due, molto difficile tre volte). Oggi, anche culturalmente, al di là dei fattori economici, è molto complicato che un paziente, per il lavoro o per la vita frenetica, possa andare quattro cinque volte in analisi.

Questo non vuol dire che lavorare una volta alla settimana non possa essere funzionale, dipende dalla diagnosi, dalle patologie, dalla formazione e preparazione del clinico e, soprattutto, dalla scelta clinica del terapeuta.

Questo apre un altro grande mistero nell’ambito della psicologia e della psicoterapia italiana a mio modo di vedere.  Mi spiego. Un paziente bussa alla mia porta e si ritrova a fare la psicoterapia psicodinamica perché ho questa formazione. Il paziente di un cognitivista comportamentale farà la terapia cognitivo comportamentale”. Sto accennando al ruolo fondamentale che dovrebbe avere la psicologia clinica come super partes di un approccio clinico, ma purtroppo, a mio parere in Italia ciò non avviene.

Di solito una persona si informa prima di andare da uno psicoterapeuta

“Non è sempre così. Una persona acculturata si informa e in linea di massima sceglie già l’indirizzo, ma generalmente non accade così. La gente telefona al terapeuta basandosi su un consiglio di qualcuno ma non tutte le terapie sono uguali.  Allora prima di fare la psicoterapia ci dovrebbe essere un filtro, come dicevo prima, definito dalla psicologia clinica non ancora psicoterapia.

Personalmente mi regolo così. Svolgo una valutazione clinica e, se il paziente è più propenso ad una terapia ricostruttiva allora può iniziare tale trattamento. Se le motivazioni e gli obiettivi del paziente lo conducono verso altri approcci o altri obiettivi spesso essenzialmente sintomatici, allora lo invio ad un collega di altro approccio metodologico”.

Le è successo?

“Assolutamente sì, nella mia pratica professionale accade; ma generalmente non succede perché c’è molta auto referenzialità. Questo soprattutto nei giovani colleghi”.

Un comportamento narcisistico

“Sì. È brutto da dire ma penso che sia soprattutto una mancanza di etica professionale, poi anche narcisistica da parte del terapeuta. Per questo sono molto rammaricato della formazione dei giovani colleghi. Conosco troppe modalità poco professionali al limite della comunicazione all’Ordine”.

Un terapeuta che racconta le sue esperienze o dà consigli al paziente?

“Questo, anche in ambito psicoanalitico è discutibile. È un costrutto: si chiama self-disclosure, cioè, autosvelamento da parte del terapeuta. Alcuni lo utilizzano anche in altri contesti di scuole diverse.

Ha vantaggi e svantaggi comunicare delle cose perché al paziente potrebbe non interessare ed è, in questo caso, un bisogno narcisistico del terapeuta. Però, in altri casi può essere molto funzionale, per esempio tecnicamente. Mi spiego: il paziente racconta una cosa e il terapeuta lo potrebbe rassicurare perché è capitato anche a lui o è a conoscenza di cose del genere. Ma può essere molto ambivalente e pericoloso perché il paziente si identifica con la soggettività e con i valori morali del terapeuta e non è corretto. A volte, purtroppo, succede anche a livello sessuale. È la violazione alla professionalità dell’incontro che a tratti viene manomessa consapevolmente. Il terapeuta esprime determinate cose per migliorare la relazione e i processi di crescita del paziente. Quindi non è demonizzato in assoluto, dipende da come viene utilizzato e il terapeuta deve sapere quello che sta facendo. Spesso però, questo non accade”.

Il fatto di andare a letto con il paziente è una gravissima violazione. Penso anche al caso di Jung e Sabina Spierlein

“Questa è l’esperienza del guaritore ferito. Un’analisi che dura anni, anche con il metodo classico non evita certe strutture di personalità. Certo, se sono estremamente patologiche forse è il caso che il terapeuta o futuro terapeuta non facesse quel mestiere. A me, come direttore di scuole di specializzazioni, è capitato di bloccare alcune persone nel corso della loro specializzazione, perché nonostante la terapia personale e la formazione, la loro struttura di personalità era molto malata ed è stato consigliato di spostarsi all’attività psicologica non psicoterapica.

Al contrario, se io avessi una scuola libera senza controllo del MIUR potrei fare un contratto con uno specializzando e fagli scrivere, per esempio, che lui sottostà alla valutazione clinica della sua formazione e quindi posso decidere di bloccarlo se, secondo me, non è adeguato alla professione. Certo tale pratica risulta essere molto discutibile, lo riconosco, ma questo non accade perché la legge e, il Miur che regola tutte le scuole di specializzazione richiede degli standard precisi. Dipende dalla scuola, ad es., se include la terapia o meno, e quindi dipende dal MUR se lo ha legittimato.

Quindi quel futuro terapeuta non ha mai fatto terapia o l’ha svolta in maniera sommaria perché la scuola che chiede il riconoscimento può pretendere la psicoterapia per il suo allievo o anche no. Pertanto, se la scuola richiede ad es., solo un numero limitato di ore di psicoterapia non è detto che bastino. Dipende dalla persona, però il futuro terapeuta potrebbe dire che il MIUR, come da riconoscimento di quella scuola richiede solo poche ore e l’allievo non ne vuole fare di più e legalmente il futuro terapeuta né ha tutto il diritto. Questo è un dramma enorme in quanto la psicoterapia non ha un tempo prestabilito e per definizione non potrebbe averlo.  Poi, a volte, c’è il problema del “narcisismo del terapeuta”. Nel narcisismo bisogna fare un distinguo: c’è la dimensione narcisistica alla quale tutti apparteniamo (quello sano come lo definiva già Freud è una componente fondamentale della nostra autostima) e la patologia narcisistica. Se noi non formiamo il terapeuta ad abbassare le sue condizioni narcisistiche e farle rientrare in una sorta di normalità, abbiamo fatto ben poco. Gabbard nel suo libro sulle violazioni del setting, chiama il narcisismo del terapeuta che finisce a letto con la paziente/il paziente il “mal d’amore”.

Immagino che sia molto difficile capirlo per il paziente che a volte diventa dipendente dall’analista

“Si attua perché la relazione transfert- controtransfert, nella situazione che lei sta descrivendo, non è decodificata. Se accade non è funzionale ma patologico. Come dicevo la relazione è asimmetrica e la responsabilità morale, etica, clinica nonché civile e penale è del terapeuta. Ci sono casi in cui non si può aggirare un transfert erotico di un certo tipo allora è preferibile che il terapeuta allontani il paziente spiegandogli il limite della continuazione della psicoterapia.  Il terapeuta non è perfetto, nessuno lo è. È importante, tuttavia, mantenere delle regole per la salute del paziente”.

Autore: Ilaria Cicconi