Virginia Woolf e Sylvia Plath: scrittrici “tormentate” a confronto

Un amore che va oltre la malattia

Un dolore dell’anima che non si può spiegare, stati d’umore devastanti e opposti che portano la mente e il corpo allo sfinimento: è questo il disturbo che affliggeva la scrittrice Virginia Woolf e la poetessa Sylvia Plath. Il disturbo bipolare da cui erano affette ha come caratteristica la bipolarità in cui sono presenti due estremi: un grave stato depressivo ed episodi maniacali. Chi ha questa patologia presenta forti sbalzi d’umore, crisi depressive, stati di mania, irrequietezza e spesso, se non adeguatamente curata, può sfociare in psicosi e portare il soggetto a compiere gesti estremi.
Virginia Woolf e Silvia Plath riuscirono a sviscerare le loro emozioni attraverso la scrittura, il loro più grande amore. Dare un volto alla sofferenza, alla gioia, alla felicità, tutto in maniera estrema, come era “estrema” la loro patologia. Ciò che colpisce è come due donne con un disturbo psichiatrico grave abbiano combattuto ogni giorno per vivere a pieno e scrivere, per quanto possibile, in quello stato di salute. Hanno fatto del loro dolore un punto di forza sublimandolo nel loro più grande amore: quello per la scrittura.
Entrambe morte suicide ma “consapevolmente”.

Virginia Woolf e la scrittura

Alcuni sostengono che Virginia Woolf sia stata “vittima” dei suoi romanzi perché, in seguito a grandi sforzi letterari, la sua patologia peggiorava notevolmente.
Questo perché una volta terminate alcune opere si trovava in uno stato di angoscia, depressione e delirio che non riusciva a gestire.
Personalmente penso che il problema non sia il “compimento” dell’opera ma il fatto che scrivendo avesse tirato fuori quelle emozioni rinchiuse nell’animo e nella mente, “dolori” e “gioie” da cui non riusciva a liberarsi: aveva aperto quella gabbia attraverso le parole e questo la destabilizzava perché anche una profonda gioia o successo può scuotere molto la sensibilità di determinati soggetti, come se la normalità fosse il dolore, un’abitudine di cui non si riesca a fare a meno. A mio modo di vedere ciò che ha portato la Woolf al suicidio, oltre la grave patologia divenuta poi psicosi, fu proprio il non riuscire più a sublimare le emozioni tramutandole in parole.

L’ancora della sua vita

La scrittura era l’ancora della sua vita e senza di essa era travolta in un vortice di pensieri e angosce difficili da gestire. Perdeva completamente quel poco ma essenziale stato di benessere che le permetteva di guidare la mente assediata da devastanti sensazioni e terrore. Come infatti leggiamo nell’ultima lettera che Virginia lasciò al marito prima del suicidio: “non riesco più a concentrarmi, non riesco neanche a scrivere come si deve”. Senza la scrittura non si sentiva viva. Non bastava il successo, la casa editrice, gli articoli di giornale, essere una moglie… E ha scelto la via che in quel momento gli sembrava più giusta: quella della morte. Una morte che avrebbe placato i suoi dolori ma ancor di più l’angoscia di non riuscire più ad essere quello che era come artista, come donna e moglie.

Chi era Virginia Woolf

Virginia Woolf è stata una delle figure più importanti della letteratura del ‘900.  Nata a Londra con il nome di Adeline Virginia Stephen il 25 gennaio 1882 ha saputo affermarsi nonostante la grave patologia psichiatrica in un “mondo di uomini” in cui la donna non era considerata e, nonostante questo, ha saputo schierarsi e imprimere la sua figura di donna e di scrittrice.

Virginia visse la sua infanzia in un ambiente intellettuale, i ricordi più belli erano quelli passati in Cornovaglia con la sua famiglia che la spinsero nel 1927, a scrivere il romanzo “Gita al faro” ispirato proprio all’infanzia, alla vista sulla spiaggia e il faro. Ma a soli tredici anni subì un grave lutto, la perdita della madre che la fece cadere nel suo primo grave stato depressivo. Due anni dopo morì la sorella Stella e questi traumi rimasero per sempre impressi nel suo cuore. Subì anche degli abusi sessuali da parte dei fratellastri, per questo aveva una forte sfiducia verso gli uomini.
Anche il padre morì di cancro e Virginia, prima di compiere ventitré anni, tentò nuovamente il suicidio. Fu ricoverata per un periodo a causa del grave stato depressivo.

La cerchia intellettuale

Dopo la morte del padre Virginia e i fratelli (Vanessa, Adrian e Thoby) si trasferirono a Bloomsbury. La loro casa divenne un centro di un gruppo d’intellettuali britannici, scrittori, filosofi, ricordiamo Bertrand Russel e Ludwig Wittgenstein, T.S. Eliot e Emmeline Pankhurst. Tutti loro facevano parte del gruppo noto come “gruppo di Bloomsbury”. Tutto questo aiutò molto Virginia ad aprirsi al mondo dell’arte, a sviluppare le sue idee di uguaglianza tra uomo e donna in cui parla nel bellissimo saggio “Una stanza tutta per sé”. Si sposò con Leonard Woolf, politico, scrittore editore. Nonostante il suo grande amore e la sua vita intellettuale il 9 settembre del 1913 tentò nuovamente il suicidio ingerendo cento grammi di Veronal.

Il suicidio di Virginia

Non era sola, pur essendolo nella sua malattia, ma aveva un marito che la appoggiava e la sosteneva in tutto sia lavorativamente che emotivamente. Un uomo che lei stimerà fino alla morte quando, lasciando una lettera prima del suicidio scriverà: “mi hai dato la maggiore felicità possibile”.
Purtroppo, nonostante i suoi grandi amori, in primis la scrittura e poi suo marito, che cercava di “proteggere” dalla sua malattia, come possiamo leggere nell’ultima lettera: “lo so che sto rovinando la tua vita, che senza di me tu potresti lavorare. E lo farai, lo so” “Non posso più continuare a rovinarti la vita”.  E così Virginia si riempì le tasche di sassi e si gettò nel fiume Ouse (Sussex), vicino la sua abitazione, lasciandosi annegare.

La lettera completa scritta da Virginia al marito Leonard prima del suicidio

“Carissimo,
sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere.

Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco neanche a scrivere come si deve. Non riesco a leggere.

Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi. V” Fonte della lettera tradottahttps://libreriamo.it/storie/commovente-lettera-virginia-woolf-marito/

La solitudine dell’anima

Non cadde nell’oscuro pessimismo perché nonostante la malattia Virginia amava la vita. Voleva vivere, amare, scrivere e condividere le sue emozioni con gli altri attraverso i suoi scritti non “vomitando il dolore in quelle pagine” (stile intenso ma diverso e non caratteristico della Woolf) ma lo liricizzava rendendolo impalpabile, sottile ma penetrante come una scheggia che resta lì, conficcata nella pelle fin quando non si giunge alla fine del romanzo.
E nell’oscillare della malattia la Woolf trovava “stabilità” nella “normalità” tra i due stati umorali e caratteristici dell’eccesso della patologia, facendo di quei momenti di tregua la sua forza, affrontando con consapevolezza il suo disturbo. Lo capiamo anche da queste poche righe:
“Quando siamo troppo allegri, in realtà siamo infelici.
Quando parliamo troppo, in realtà siamo a disagio.
Quando urliamo, in realtà abbiamo paura.
In realtà, la realtà non è quasi mai come appare.
Nei silenzi, negli equilibri, nelle “continenze” si trovano la vera realtà e la vera forza “.

Lo stile di Virginia e di Silvia Plath a confronto

Colpisce molto lo stile equilibrato della scrittrice nonostante la patologia: è sempre lo stesso. Non cambia. È lirico, ricco di introspezioni e flussi di coscienza con analisi dettagliate dei personaggi e della loro psicologia. Una cosa molto difficile per un soggetto bipolare, Infatti se prendiamo come esempio la scrittrice Silvia Plath, anch’essa bipolare e morta suicida, leggiamo il suo unico libro “La campana di vetro”, ci accorgiamo di come sembri scritto da persone diverse. Diviso mentalmente almeno in tre parti, come inizi in una fase d’umore e termini nell’opposto.

Ne parleremo nel prossimo articolo su Sylvia Plath



Autore: Ilaria Cicconi