Perché si uccise Sylvia Plath?

Una nuova chiave di lettura e il confronto con la scrittrice Virginia Woolf affetta anch’essa da disturbo bipolare

Sylvia Plath, nata a Boston, Massachusetts, il 27 ottobre del 1932, scrisse la sua prima poesia a 8 anni e da allora non abbandonò più la sua passione.
Dopo la perdita del padre, a nove anni, ebbe la sua prima crisi depressiva. Un padre autoritario con cui aveva un rapporto conflittuale anche perché le sottolineava continuamente che avrebbe voluto un figlio maschio. Sublimerà, poi, nelle sue poesie, la rabbia repressa verso il genitore autoritario e la frustrazione dell’“abbandono” per la perdita paterna.

La prima grande crisi

Dopo essere stata ammessa allo Smith College, una famosa università femminile, si recò a New York per uno stage. Ebbe una grave crisi depressiva dovuta non solo all’impatto con l’ambiente newyorkese ma anche all’oppressione della competizione che regnava nei circoli mondani. Venne ricoverata in un istituto psichiatrico. Una volta uscita, lo specialista le prescrisse una serie di sedute ambulatoriali di elettroshock senza anestesia. Una forma di violenza che rese la scrittrice portavoce della libertà contro ogni tipo di abuso. Sconvolta Sylvia si recò in cantina e ingerì una grande quantità di sonniferi. Un rigetto la salverà e tornerà al College per laurearsi.

Sposò nel 1950 il poeta Ted Huges e l’anno successivo intraprese anche la strada dell’insegnamento. Tuttavia, conciliare il lavoro, la famiglia e la scrittura non fu facile e nel ’59 decise di lasciare l’insegnamento per concentrarsi sulla sua arte. Nel 1960 uscì “Il colosso” la sua prima raccolta di poesia. Ebbe due bambini. La cura dei figli e il tradimento del marito portarono Sylvia in uno stato di profondo tormento e isteria. Dopo estenuanti litigi i due decisero di separarsi e la poetessa si trasferì a Londra con i figli. Compose le poesie che faranno parte della raccolta Ariel. Nel 1963 uscì in Inghilterra il suo unico romanzo “La campana di vetro” che pubblicò con lo pseudonimo di Victoria Lucas.

Il rapporto con scrittura

La poetessa, secondo i critici, seguiva una tecnica precisa: partendo da un dato soggettivo, come un evento personale o un quadro, cercava di esaltarlo al massimo con la terminologia poetica, dandogli un valore universale. La lirica, a mio avviso, e ancor di più il romanzo, riflettono l’instabilità emotiva di Sylvia. Anche la “duplice visione della poesia come luce e come ombra”, denotano l’alternarsi del suo umore dallo stato maniacale a quello depressivo evidente in particolare nel suo unico romanzo “La campana di vetro”.

“La contemporanea presenza dell’arte come forza sia redentrice sia distruttrice percorre tutta la scrittura dell’autrice e si ritrova finanche nei racconti; se il contrasto comincia però con un’opposizione ben delineata (la realtà negativa deve essere sempre “redenta” dall’immaginazione creativa), col passare del tempo i termini si scambiano di posto e la poesia assume un ruolo sempre più spaventoso, minacciando di intrappolare per sempre il poeta al suo interno” Sylvia Plath La campana di vetro post fazione.

Come visse la maternità

La scrittrice ebbe una vita molto complicata fatta di dolore e angosce, tradimenti e “mutilazioni” come “donna scrittrice”. Visse in modo tormentato la sua maternità perché non riusciva a conciliare la figura di madre con quella di scrittrice.  Fu portavoce della difficoltà e della sofferenza che affrontano le donne nel mondo del lavoro a causa della sessualità. È stata anche un’icona della poesia confessionale. Si pensa che la Plath soffrisse come Virginia Woolf di disturbo bipolare.

Il suicidio

“Morire
È un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammettete che ne ho la vocazione.” Sylvia Plath Lady Lazarus

L’11 febbraio del ’63 Sylvia preparò, come nulla fosse, la colazione per i figli e, dopo aver spalancato le finestre delle loro stanze e sigillato le porte, si recò in cucina. Per compiere il gesto estremo, o forse per sfidare la sorte e trovare salvezza, infilò la testa nel forno dopo aver aperto il gas lasciando, però, un biglietto al vicino “Chiama il dottore”. L’ultimo disperato tentativo di suicidio le riuscì. La poetessa morì quel giorno.

Lo stile

Aveva tanto cercato la vita e la morte negli estremi della sua lirica spinta da continui e irrefrenabili tentativi di donna e scrittrice determinata nel trovare ordine e conforto nella scrittura, tormentata però dalla contrastante ricerca della perfezione stilistica. Una scrittura rivolta al tentativo, a mio parere non riuscito, di riordinare il caos nella sua mente che la porterà a vedere la poesia con un duplice volto: quello di demone che la spinse a estremi sacrifici per raggiungere la perfezione” ma anche un modo per far rivivere i suoi amori perduti (come il padre deceduto), la sua rabbia inespressa, le sue angosce e le sue gioie. Insomma, un confessionale e studiato tentativo di emergere ma soprattutto di liberazione dell’Io, sia esso stato manicale che depressivo.

Virginia Woolf e Sylvia Plath: l’amore

Mentre Virginia amava la vita ed era circondata da persone che stimavano il suo lavoro, appoggiata da un marito che l’amava e la supportava in ogni momento Sylvia era alla costante ricerca di un amore puro e sincero ma, purtroppo, Ted non fu questo per lei. In una lettera trovata anni dopo la morte della poetessa dalla figlia si legge: “Credo onestamente che grazie a qualche mistica unione siamo diventati uno sola carne” “Sono malata, fisicamente malata senza di te. Piango; poso la testa sul pavimento; soffoco, odio mangiare; odio dormire o andare a letto…Vivo in una sorte di morte in vita…” Si scambiarono queste epistole durante il periodo in cui lei era impegnata a Cambridge e lui nello Yorkshire. Mentre lei si straziava per amore lui non solo la tradiva ma addirittura, successivamente iniziò a comporre poesie per l’amante che Sylvia trovò. Inoltre, la picchiava, tanto da avere, nel 1961 un aborto. Ted era un uomo spietato, arrivò addirittura a privare lei e i loro figli dei mezzi di sussistenza. Per questi motivi lo lasciò. Aveva perso un padre e, nella ricerca di una figura amorevole, aveva, invece, trovato un mostro.
Durante il periodo di dolore, dopo aver lasciato Ted, compose alcune poesie raccolte in Ariel.

Perché Sylvia Plath si tolse la vita?

Limite

La donna è perfezione.
Il suo morto

Corpo ha il sorriso del compimento,
un’illusione di greca necessità

Scorre lungo i drappeggi della sua toga,
I suoi nudi

Piedi sembran dire:
Abbiamo tanto camminato, è finita.

Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
Come un bianco serpente a una delle due piccole

Tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha ripiegati

Dentro il suo corpo come petali
Di una rosa richiusa quando il giardino

S’intorpidisce e sanguinano odori
Dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.

Niente di cui rattristarsi ha la luna
Che guarda dal suo cappuccio d’osso.

A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.

A parte la terribile patologia e le sofferenze della vita ritengo che questo testo racchiuda il vero motivo della sua morte. È devastante, quasi destabilizzante pensare che una donna madre possa arrivare a scrivere tutto questo ma, infondo, per la poetessa conciliare la vita familiare e la figura di madre con la scrittura è sempre stato un grosso macigno. Non si sentiva completa e perfetta né come madre né come scrittrice e la sua ricerca di questa perfezione la esasperava, come lo sono a volte le sue poesie. Lucubri, feroci, tristi e a tratti deliranti. Uno stile particolare di una donna che ha trovato nella scrittura uno sfogo ma anche un nemico e che si identificava con essa.

Analisi della poesia “Limite”

Analizzando la poesia è evidente come la perfezione della donna, della scrittrice “illusione di greca necessità”, “toga” è ciò che devasta la donna. I piedi nudi che ricordano l’immagine di Cristo che va incontro alla morte “I suoi nudi piedi sembran dire: abbiamo tanto camminato, è finita” contrastano con i bianchi serpenti simbolo del peccato “morti infanti ciascuno Come un bianco serpente”. Una strofa agghiacciante che, a mio parere, svela la mancata perfezione nella vita di Sylvia in cui i figli sono “bianchi serpenti” quindi il bene e il male perché sono figli di un uomo che ha amato ma che l’ha tradita portando il peccato e l’imperfezione nella purezza del suo modo di vedere l’amore. La cosa più inquietante è che la poetessa sembra voler apparire in questa poesia, quasi purificata dal dolore e dal male. È sconcertante che una madre possa raffigurare i figli in questo modo senza sensi di colpa. Forse erano diventati per lei un peso del fallimento del suo amore, un ricordo troppo doloroso del tradimento e un ostacolo al suo lavoro. L’amore per la famiglia che tanto proclamava non era poi così forte se ha scelto il suicidio o forse inconsciamente si sentiva una madre imperfetta e una donna che aveva bisogno di raggiungere la pace e, secondo i suoi testi, la morte era l’unica via d’uscita. Il raggiungimento della “libertà” una libertà che ha sempre cercato e vomitato in quelle pagine e poesie dai mille volti e mille contrasti ma che non troverà.

Lo stile di Virginia Woolf

Virginia aveva subito una perdita, come Sylvia, quella della madre e un terribile trauma che la porto ad avere i primi episodi depressivi: gli abusi sessuali da parte dei fratellastri.
Ma, a differenza di Sylvia, Virginia aveva una personalità molto forte ed era sicura e consapevole del suo talento mentre Sylvia cercava sempre la perfezione. Una ricerca sfrenata e devastante che la porterà al limite. Lo stile della Woolf è straordinariamente lineare per la sua personalità. I suoi libri dai toni lirici, spesso lenti, hanno tutti la sua “penna”, non sembrano tratti da diverse personalità ma, se si confrontano due testi della scrittrice si riconosce subito il suo stile. Il saggio “Una stanza tutta per sé” è il testo che personalmente preferisco della Woolf. È straordinariamente moderno per l’epoca ed evoca immagini liriche e forti di una donna libera, una donna che si batte per i suoi diritti e per avere un ruolo in una società maschilista. Dal tono satirico velato però da un linguaggio impregnato di liricità e forza, sicurezza nello sfondare i muri e i limiti di una società di cui fa parte ma nella quale irrompe con il suo pensiero e le sue parole con la delicatezza e la sicurezza di chi sa che lascerà un segno.

Due donne, stessa patologia ma un approccio diverso alla vita

Due vite diverse, due storie che hanno in comune la stessa patologia ma un diverso modo di gestirla. La maniacalità di Sylvia disperata e spesso crudele unita ad una depressione devastante e una ricerca spasmodica di un Io frammentato attraverso l’amore per la scrittura che sarà veramente il suo devastante confessionale. E poi c’è Virginia con i suoi stati testi che nonostante la tristezza che lasciano un velo di speranza di malinconia e spesso di forza che non lasciano trasparire inquietudine e devastazione interiore. Perché Virginia era anch’essa tormentata ma aveva imparato a gestire i suoi mali e si amava. Amava veramente e amava molto. Non era una donna che si sentiva incompiuta ma appoggiata in particolare da suo marito. E per questi amori il gesto estremo. La sua penna e suo marito. Moriva libera e consapevole Virginia. Non arrabbiata con se stessa e con la vita come Sylvia.

La violenza che lascia il segno

Come detto in precedenza, entrambe le scrittrici furono vittime di violenza. Virginia fu stuprata dai fratelli e Sylviapicchiata dal marito.
Dopo la sua morte Ted iniziò a picchiare anche la seconda moglie Assia Wevill che si tolse la vita il 23 marzo 1969, insieme alla loro figlia Shura. La violenza porta violenza e morte. Sia fisica che psicologica. Io non la giustifico in alcun modo, è un abuso, un reato e va sempre denunciata. Che sia di tipo fisico o psicologico. Porta con sé una scia di “morte” dietro di sé e le pene non sono abbastanza severe perché spesso, questi soggetti, si ritrovano a ricommettere violenza come gli assassini che escono dal carcere e uccidono ancora.

Molte donne ma anche uomini non vengono ascoltati. Molte mogli perdonano i mariti abusanti. È uno scempio. Alcune dicono: “l’ho fatto per amore”. Ricordate ogni forma di violenza non è amore e non è giustificabile. Tutto ciò che distrugge non è amore ma sono possesso. È una forma di manipolazione fisica e psicologica. Queste persone non sono esseri umani. Non capisco né giustifico donne che continuano a stare vicino a uomini di questo tipo, abusanti, narcisisti, addirittura in casi estremi pedofili. Aprite gli occhi perché, se non denunciate alimentate la violenza e il circolo non si chiuderà con voi ma in un “bagno di sangue” e di dolore per voi o per le prossime vittime.




Autore: Ilaria Cicconi