La Corte di Appello di Messina ha riconosciuto la morte causata dall’esposizione ad amianto presente nei traghetti delle Ferrovie dello Stato
“La morte è avvenuta a 73 anni ma, come dico sempre, papà ha cominciato a morire lentamente a 60 anni”. Inizia così il racconto di Raffaella figlia di Antonino Ruello, ufficiale e, successivamente, direttore di macchina sui traghetti delle Ferrovie dello Stato.
Come dimostrato dall’accertamento medico-legale, Ruello è morto a causa dell’esposizione a fibre di amianto presenti all’interno dei traghetti su cui lavorava. I familiari, in seguito al rigetto in primo grado delle richieste di riconoscimento di morte per malattia professionale, si sono rivolti all’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto che ha impugnato la sentenza del Tribunale di Messina.
L’accertamento medico legale richiesto dalla Corte di Appello ha dimostrato che il tumore uroteliale e quello alla vescica che ha colpito Ruello all’età di 63 anni, costringendolo a dieci anni di agonia sono stati causati dall’esposizione ad amianto. Ai familiari è stato riconosciuto il diritto alla rendita e i ratei dal 2007 al 2017 (circa 60mila euro) a carico dell’Inail. A cui si aggiungono anche i risarcimenti a carico di RFI, per l’importo di 41.763 euro.
Antonino è morto lasciando un vuoto incolmabile nel cuore delle due figlie e della moglie. Raffaella racconta durante l’intervista il lungo calvario di quest’uomo ma anche il suo amore per il lavoro, la famiglia e la vita.
«Mio padre adorava i motori e tutto quello che era meccanico. Infatti, nella sua vita ha sempre aggiustato tutto quello che poteva. Lavatrice, frigoriferi, televisori.
Fece il suo primo imbarco su un mercantile, un porta container; quindi, stava anche anni fuori da casa per lavoro».
Viaggiava molto, Antonino, legato al suo amore per il mare e i motori e spesso, come racconta la figlia, stava fuori casa per lavoro. Ma non ha mai fatto mancare nulla ai suoi cari né dal punto di vista economico né affettivo. Infatti, al rientro, passava le sue giornate con la famiglia. Quando nacque la seconda figlia decise di stare più tempo vicino alla moglie perché con il suo lavoro era sempre all’estero. Così decise di fare un concorso per entrare in un’altra compagnia. Riuscì a vincerlo iniziò a lavorare sui traghetti delle Ferrovie dello Stato.
«Papà adorava il suo lavoro in una maniera esagerata. Tornava a casa e ci raccontava quello che era successo a bordo.
Io e mia sorella siamo cresciute conoscendo tutto dei motori. Anche se poi non abbiamo fatto nulla di ingegneristico meccanico. Però lui ci parlava di turbine, motori e di quello che faceva durante la giornata».
Era un amore che condivideva anche con la sua famiglia, attraverso i suoi racconti. Quando non riusciva a risolvere un problema la figlia lo vedeva pensieroso. Era preso. Amava ed era innamorato. Del suo lavoro, della famiglia e del mare. Un uomo felice. Completo. Che amava la vita e determinato in ogni cosa, raggiungendo i suoi obiettivi, realizzando i suoi sogni e stringendo a sé i suoi cari.
Questa passione lo portò a fare carriera raggiungendo il massimo grado, quello di direttore di macchina riuscendo, con l’appoggio della sua famiglia a conciliare il tutto. E questo è un amore che resta. Nel cuore dell’amata moglie e delle figlie che ricordano il volto speranzoso del padre, il suo sorriso. Il frigo che riempiva di cose quando Raffaella tornava a casa dopo un periodo fuori per gli studi. Un padre orgoglioso e con una grande passione. Quella per il mare, che ha stretto a sé fino alla morte.
Un’agonia lenta a causa dell’esposizione
«Papà è morto a 73 anni ma per tutta la sua vita ha sofferto a causa di varie tipologie di cancro. È stato a casa mia per sottoporsi a chemioterapia subendo interventi al colon e, poi, al fegato.
La morte è avvenuta a 73 anni, ma come dico sempre mio papà ha cominciato a morire lentamente. A circa 60 anni ha iniziato a star male».
Purtroppo, dal 1972 al 1991, periodo in cui ha lavorato sui traghetti, non si aveva una conoscenza specifica riguardo la pericolosità dell’amianto. Questo fino al 1992 quando con la legge 257 l’amianto fu bandito perché cancerogeno.
«Ci raccontava che lavorava con polveri di amianto che venivano miscelate per riparare le falle a bordo o per coibentare tubi all’interno dei quali passavano degli oli ad altissime temperature. Quindi era comunque soggetto a contatti ripetuti e prolungati. Lavorava a mani nude, senza guanti né protezioni. Non esistevano nemmeno le scarpe di sicurezza. Ricordo che papà aveva anche una divisa elegante che non ha mai utilizzato perché era bianca. Immagini come sarebbe tornato a casa. Usava la divisa scura perché puntualmente si macchiava di olio. Come ha dichiarato mia sorella nell’intervista aveva un odore addosso inconfondibile. Che noi ricorderemo per tutta la vita».
Un odore che non andava via neanche lavando la divisa. Lo sentivano ancora anche dopo mentre la stiravano.
Non c’erano soluzioni alternative all’uso dell’amianto a quei tempi. Antonino lavorava anche nei cantieri dove l’amianto era presente in maniera cospicua.
I primi sintomi della malattia
«Iniziò ad avere fastidi, bruciori e la minzione diventava sempre più frequente quindi decise di fare una visita. Noi pensavamo che fosse un problema alla prostata. Invece sono stati scoperti dei noduli alla vescica. Era ancora giovane. Infatti, ricordo che con l’intervento e con la successiva radioterapia c’era il pericolo che lui diventasse impotente.
Ha avuto tantissimi problemi per la radioterapia (gli ha praticamente ustionato tutta la parte degli organi genitali) e ha sofferto tantissimo a causa fastidi e dei bruciori molto forti».
Così è iniziato il calvario
Antonino si operò a Sestri da un urologo di fama internazionale. Durante i trattamenti i medici iniziarono a sospettare che il tumore fosse legato all’esposizione all’amianto e ad altri cancerogeni.
Infatti, Antonino intraprese la causa per esposizione sul lavoro quando era ancora in vita. Purtroppo, è stata persa in primo grado.
Non amava molto intraprendere cause giudiziarie, quindi, se si è spinto fino a questo punto aveva dei sospetti. Dopo la morte, infatti, i suoi familiari hanno deciso di portare avanti l’azione giuridica e si sono rivolti all’avvocato Bonanni.
Tuttavia, nonostante il sospetto che il suo tumore fosse legato all’esposizione alle polveri e fibre di amianto Antonino continuava ad amare il suo lavoro.
«È stato un padre presente nonostante questo tipo di lavoro. È sempre stato il perno della famiglia anche se è stata la mamma quella che ci ha seguiti di più perché lui faceva i turni e, spesso, quando era a casa dormiva perché aveva fatto la notte.
Siamo cresciute con un profondo rispetto del suo lavoro e ci siamo adattate».
A 63 anni ha iniziato ad avere problemi allo stomaco. In seguito a un’ecografia all’addome il medico suggerì ulteriori accertamenti. Aveva un tumore al colon. La moglie e le figlie decisero di portarlo subito a Milano al centro Veronesi dove lo operarono immediatamente.
La paura e l’agonia
«È entrato in sala operatoria con il dubbio che potesse uscire stomizzato. Io e mia madre abbiamo assistito a tutti gli interventi (in tutto cinque). Già lavoravo come psicologa. Ho preso anche la 104 per accompagnare mio padre a fare la chemioterapia (inizialmente ogni settimana).
Noi avevamo la certezza che la sua morte fosse dovuta all’ esposizione prolungata all’amianto. Quando ci siamo confrontati con il dottor Montilla, suggerito da Bonanni, abbiamo avuto la conferma da una forte autorevole.
Io mi sono affidata completamente all’avvocato Ezio Bonanni e mi ha spiegato tutto quello che dovevo fare. Recuperare la documentazione e le cartelle cliniche nei vari ospedali in Italia. Perché mio padre è stato anche a Verona e in Svizzera».
Raffaella lo portò anche in Svizzera perché Antonino, a un certo punto, era diventato resistente alla chemioterapia.
Lei si occupava di tutto, lo portava in ospedale, dal medico a fare le visite e le medicazioni. Ha dovuto riorganizzare la sua vita ma lo ha fatto per stare vicino a suo padre. Un lutto non si supera con il tempo. Ma con la volontà e la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile per la persona amata. Lasciarla andare ma tenere stretto a sé il ricordo dell’amato padre da riabbracciare attraverso una canzone, un momento felice, una fotografia. Non è facile.
«Inizialmente mio padre è stato qui con me a Cantù per un anno perché faceva la chemioterapia, settimanalmente. Poi, ogni 12 giorni e, quindi, tornava giù a Messina. Adorava la sua casa. Si affacciava qui dalla finestra a Cantù e, nonostante io abbia una casa in un posto tranquillo e indipendente con il giardino, diceva mi manca il mio mare e la mia casa».
Dopo un anno, il tumore si ripresentò al fegato. I medici hanno tentato l’intervento ma era, ormai, in metastasi.
Quindi non c’era altro da fare, se non proseguire la chemio e cercare di arginare questo cancro che diventava sempre più invasivo. Il tumore a un certo punto ha colpito entrambi i polmoni fino ad arrivare al cervello.
«Lo abbiamo portato a casa perché non c’era più nulla da fare.
A dicembre 2017, sono andata giù in Sicilia e abbiamo attivato un supporto a casa. Medici, infermieri che lo hanno seguito per tutto il tempo fino a quando abbiamo deciso di iniziare la morfina perché papà era distrutto. Abbiamo fatto la torta il 13. Ha spento la candelina. Aveva appena compiuto 73 anni e dopo 3 giorni è morto.
Quello che ha provocato rabbia in noi non è il fatto che ci sia stata questa esposizione perché, purtroppo, ancora non si sapeva che l’amianto fosse così pericoloso. Ma il non riconoscerlo subito alla luce di tutte le evidenze scientifiche».
Prima che morisse i familiari hanno messo la canzone che a lui piaceva tantissimo “Arcobaleno di Celentano”.
«La cantavamo sempre insieme al ritorno dalla chemioterapia».
Piange Raffaella, ricordando suo padre e quella musica che la accompagna ancora oggi per sentire la sua presenza anche dopo questa terribile tragedia.
«Mio padre lo sento sempre con me, anche più di prima. Vorrei dire a tutti quelli che hanno subito una perdita così importante che bisogna imparare anche a trovare queste persone in maniera diversa, se si cerca la fisicità si fa fatica e si rimane nel dolore.
Bisogna iniziare ad accogliere altre sfumature anche un po’ più spirituali. Poi c’è chi è credente e chi non lo è. Spero che questa intervista possa essere un modo per incentivare le persone che hanno subito una perdita a causa di esposizione a sostanze cancerogene sul lavoro a capire che tutto questo è ingiusto».