Costruire attivamente la felicità

Breve riflessione su una prospettiva possibile suggerita da Leopardi

Una prima idea di felicità

Riflettere sulla possibilità di essere e vivere felici implica il chiedersi come ottenere quella condizione di appagamento e gioia in cui di solito consiste la felicità. Essa, infatti, può porsi come conquista e realizzarsi come un processo dinamico verso il quale mantenersi attenti e consapevoli. È questa una concezione che riguarda gli esseri umani in generale, ma che è di notevole interesse per i giovani, propensi di solito, per via dell’età, a identificare la felicità in un imperturbato stato di benessere.

L’opinione di Leopardi

Leopardi, nello Zibaldone[1], coglie aspetti sostanziali.

Secondo lui, in primo luogo, la felicità si raggiunge prefiggendosi uno scopo ma è, a sua volta, uno scopo, ossia è capace di rendere utile la vita; essa, dunque, non è il piacere fatuo di spassi e divertimenti di chi è sfaticato e superficiale. Ancora: il valore dei mezzi con cui raggiungerla è superiore al valore dello scopo (la pianificazione, le azioni e gli stati d’animo con cui si persegue il fine ne sono, quasi assurdamente, parte integrante). Infine, l’umanità si provvede da sé della felicità, per bisogno.


[1] Zibaldone di pensieri, in Tutte le opere, a cura di W. Binni, II, Sansoni,  Firenze 1988, p. 4518,3

Cos’è per me la felicità

Ho della felicità una concezione non dissimile da quella del grande poeta recanatese, perché ritengo che, non essendo un bene connaturato, va praticamente costruita. È, cioè, un portato della vita attiva che, se ha a che fare col riposo –si è almeno più contenti se si è meno stanchi- nondimeno ha forse più a che fare con l’appagamento di chi, raggiunto il suo scopo, può meritatamente riposare. Così, essa non è continua, ma durevole, ovvero permane fino al raggiungimento di un nuovo traguardo. Per es., se ho imparato con le difficoltà del caso a bastare a me stessa nelle decisioni più facili, ottenendone soddisfazione, sarò indubbiamente più soddisfatta quando raggiungerò l’autonomia nelle scelte decisive.

Prima la pensavo diversamente

Avendo vissuto un’adolescenza complicata, pensavo, prima d’oggi, che un’esistenza emotivamente tranquilla o, ancora meglio, l’assenza di emozioni, fosse quanto di più vicino alla felicità. La lettura del filosofo Epicuro mi aveva convinta che serenità e felicità si specchiano l’una nell’altra e si determinano reciprocamente: se sono serena sono anche felice, se sono felice sono anche serena.  Mi accorsi con gli anni che la felicità conviveva più volentieri con l’amore per la vita, in tutta la sua densità esistenziale. Questa disponibilità dell’animo è culturalmente coltivabile, ma è prima di tutto istintiva.

La specie umana tende per natura al piacere eppure impara non per istinto ma con l’esperienza (per prova ed errore, si direbbe) che anche il piacere è strutturato e contradditorio e che è un concetto molteplice. Così il piacere intellettuale o erotico o artistico o professionale o etico sono realtà differenziate. Di cui trattare e fare esperienza partitamente, o forse da sapere distinguere all’interno di un’esperienza complessa di piacevolezza.

La vittoria di uno sportivo, per es., produce una felicità fatta di adrenalina, sentimento della propria abilità, orgoglio di percepirsi unico. Si tratta di una condizione in cui agiscono fattori diversi, accomunati però dall’amore vitale e dall’azione funzionali allo scopo.

La vita filosofica

Tornando alla questione secondo l’ottica precisa dello Zibaldone, se hanno ragione Leopardi e quanti la pensano come lui, ridursi ad esistere senza obiettivi equivarrebbe a vivere infelicemente, ossia rinunciare ad agire attivamente sulla propria vita, cioè decidendone le mete. Ma la capacità di scelta esige una conoscenza di sé indispensabile a adeguare a sé le scelte. Conoscersi e conoscere è uno dei modi, senz’altro il migliore a detta di Socrate, per vestire la vita puramente “animale”. Ma anche per saperla svestire di quanto ostacola la ricerca della felicità e la sua realizzazione.

L’equilibrio tra istinto e coscienza

Questa concezione fondata sulla conoscenza esprime, a mio giudizio, l’equilibrio tra istintualità e coscienza, e se la primitiva felicità ci è vietata, possiamo, e i giovani per primi, costruirne un’altra per noi e per gli altri: una felicità che prevede lavoro e fatica né esclude il dolore, ma che, appunto per questo, acquista un valore inestimabile, a prescindere, quasi un paradosso!, dal successo finale.

Autore: maria giuseppina piras