Cos’è la riforma dell’assistenza territoriale promossa dal decreto 77 del 2022? Quali sono i commenti e le criticità nell’applicazione?
L’assistenza territoriale in Italia è un pilastro fondamentale del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), nato per garantire cure mediche vicine ai cittadini, al di fuori degli ospedali. Si tratta di un sistema che coordina vari servizi, come le cure domiciliari, gli ambulatori, i medici di base e le farmacie, per offrire assistenza continua e tempestiva, specialmente a pazienti con malattie croniche o fragilità.
Dopo la pandemia da Covid-19, questo modello ha subito una revisione profonda, spinta dalla necessità di affrontare meglio emergenze sanitarie e di potenziare il supporto sul territorio. La riforma, guidata anche dai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), punta a creare una rete capillare e moderna.
Come è cambiata l’assistenza territoriale?
La Riforma dell’assistenza territoriale, regolata dal decreto interministeriale n. 77 del 23 maggio 2022, definisce un nuovo modello organizzativo del Servizio Sanitario Nazionale e ridisegna funzioni e standard del Distretto.
Una delle novità principali è l’istituzione delle Case della Comunità, strutture che fungono da punti di riferimento per le cure primarie, dove medici, infermieri e specialisti collaborano per gestire le necessità dei pazienti. Questi centri permettono anche l’accesso alla telemedicina, una tecnologia cruciale per monitorare i pazienti a distanza, riducendo la necessità di spostamenti, soprattutto in aree remote o rurali.
Un altro elemento innovativo è rappresentato dalle Centrali Operative Territoriali (COT), che coordinano l’intero sistema di assistenza. Le COT agevolano la comunicazione tra ospedali, servizi domiciliari e strutture territoriali, garantendo una gestione più efficiente e personalizzata dei casi. Per le emergenze di minore gravità, inoltre, sono stati introdotti i Punti di Assistenza Territoriale (PAT), destinati a interventi rapidi e di bassa intensità.
Criticità nell’attuazione della riforma dell’assistenza territoriale
Tra le tante difficoltà di attuazione si registrano costose bizzarrie come l’insensatezza di spendere i soldi del PNRR con la costruzione di diverse Case della Comunità (spese da 2,5 a 4 milioni di euro) in paesini di poco più di 1.000 anime mentre non è prevista la Casa di Comunità in un capoluogo come Ragusa con 73.000 abitanti, malgrado la normativa preveda una casa di comunità Hub ogni 40.000-50.000 abitanti.
Nel 2020 il DM77 prevedeva di attivare al 2026, 1430 “Case di Comunità” di cui 309 da edificare e 1121 da ristrutturare. A Dicembre 2023 il Governo rimodula il finanziamento con l’UE riprogrammando le “Case di Comunità” da 1430 a 1038 con una differenza di 392 strutture in meno.
A Dicembre 2023, le Regioni hanno dichiarato 187 “Case di Comunità” funzionalmente attive secondo criteri del DM 77 (Emilia 43, Lombardia 92, Piemonte 38, Molise 6 ,Toscana 6, Umbria 2). Solo su 102 delle 187 Case è presente il Medico di Medicina Generale (MMG) e solo in 53 su 187 è presente il Pediatra di libera scelta (PLS).
A questo si aggiunge che, delle 187 Case attive solo in 35 viene garantita l’assistenza H24 ed in 64 Case, delle 187, il servizio viene garantito per meno di 12 ore in 6 giorni su 7.
Le sfide ancora aperte della riforma dell’assistenza territoriale
Nonostante questi passi avanti, permangono alcune difficoltà. La pandemia ha evidenziato diseguaglianze regionali significative, con il Sud che fatica a raggiungere gli stessi standard del Nord. Inoltre, l’applicazione pratica delle riforme è ostacolata dalla carenza di personale medico e infermieristico e da ritardi infrastrutturali. La telemedicina, per esempio, richiede un ampio investimento in formazione e tecnologie, aspetti che non tutte le Regioni hanno ancora affrontato adeguatamente.
L’assistenza domiciliare è un altro punto critico: il PNRR prevede di incrementare notevolmente il numero di anziani seguiti a casa, ma molte Regioni, soprattutto del Centro-Sud, devono ancora colmare lacune importanti per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Alcuni osservatori, come la Fondazione GIMBE, hanno messo in evidenza che la riforma rischia di lasciare scoperte alcune necessità strutturali, come la presenza di posti letto in terapia intensiva e sub-intensiva, ridotti nell’ultima versione del piano. Sarà fondamentale evitare ritardi e garantire inoltre una distribuzione equa delle risorse tra le diverse regioni.
Telemedicina e Centrali Operative Territoriali: come funzionano?
La telemedicina è un elemento centrale nella riforma e prevede l’uso della tecnologia per monitorare e curare i pazienti a distanza. Ciò è cruciale per la gestione delle malattie croniche e per ridurre gli spostamenti per visite o controlli medici non necessari.
Parallelamente, le Centrali Operative Territoriali (COT) coordineranno i servizi tra ospedali e assistenza domiciliare per una presa in carico efficace dei pazienti, monitorando i bisogni in tempo reale e indirizzando le cure nel luogo più adatto.
Secondo il piano entro il 2025 saranno almeno 200.000 le persone assistite con la telemedicina.
Centrali Operative Territoriali: quante e come
La Centrale Operativa Territoriale svolge una funzione di coordinamento della presa in carico
della persona e raccordo tra servizi e professionisti coinvolti nei diversi setting assistenziali: attività territoriali, sanitarie e sociosanitarie, ospedaliere e dialoga con la rete emergenza/urgenza. Ne è prevista una ogni 100.000 abitanti.
Unità di Continuità Assistenziale: cos’è e come funziona
Almeno 1 medico e 1 infermiere ogni 100.000 abitanti. L’UCA supporta per un tempo definito i professionisti responsabili della presa in carico del paziente e della comunità.
Viene attivata per condizioni clinico-assistenziali di particolare complessità e comprovata difficoltà operativa di presa in carico. Dotata di un sistema integrato comprendente una moderna infrastruttura di telemedicinacollegata alle Centrali Operative Territoriali, anche per attivare il teleconsulto o Sede operativa: CdC hub.
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